Abbiamo chiesto a Dino Giovannini, psicologo sociale presso il Dipartimento di Educazione e Scienze Umane dell’Università di Modena e Reggio Emilia il senso del dono, in particolare quello del sangue, dai singoli individui e che ruolo ha la donazione nelle dinamiche di socializzazione.
Nel mondo globalizzato si sente spesso parlare di isolamento degli individui, calo della socialità e dei luoghi di socializzazione. Dal punto di vista della psicologia sociale, quanta importanza ha oggi il concetto di dono? Può essere interpretato come un “collante sociale”?
Se da un certo punto di vista si può affermare che internet, i telefonini, l’uso del pc per collegarsi in rete portano spesso degli individui ad estraniarsi e isolarsi, è anche vero che ambiti e luoghi di socializzazione non sono certo venuti meno, come dimostrano, ad esempio, le frequentazioni delle discoteche o gli assembramenti fuori dai bar o dagli esercizi “di moda” per gli happy hour serali. Dunque occorre prestare attenzione a non fare letture generalizzate o dicotomizzanti, perché la realtà è sempre molto complessa e articolata e occorre in ogni caso non perdere mai di vista la necessità di contestualizzare le letture che vengono operate.
Circa l’importanza del dono oggi, se si intende con questo termine il fare disinteressatamente qualcosa per gli altri o a vantaggio di altri, occorre precisare che la Psicologia sociale ha una ricca tradizione di studi e ricerche sull’altruismo e i comportamenti pro-sociali, che costituiscono tutt’ora un capitolo importante di un manuale di questa disciplina. Gli studi tuttavia mostrano che la disponibilità a fare qualcosa per gli altri dipende da variabili personali (avere o non avere, per esempio, del tempo a disposizione), dalla presenza o meno di altri individui, dalle norme sociali e dalla spinta al conformismo. Se si considera il ruolo, ad esempio, del volontariato, una tematica più prettamente di Psicologia di comunità, è evidente che si può fare riferimento a variabili come la coesione sociale, tenendo conto che in questo, come in molti altri casi, è il gruppo cui si sente di appartenere e in cui ci si identifica (ad esempio, “noi, i donatori di sangue”) che gioca un ruolo determinante per i comportamenti messi in atto.
Nel 2005 è stato a capo di un’indagine sugli atteggiamenti dei giovani di Reggio Emilia nei confronti della donazione di sangue. In questa indagine si rileva che la quasi totalità dei non-donatori riconosce di sapere cos’è l’Avis, ma non saprebbe dove andare effettivamente a donare e vorrebbe aver più informazioni a riguardo. E’quindi sufficiente che un’associazione come Avis insista ancor di più nella sensibilizzazione all’interno del mondo scolastico o, a suo avviso, ci sono altri modi di offrire sostegno a chi è indeciso a donare?
Lo studio ha messo in luce alcuni importanti aspetti per quanto riguarda sia la struttura dell’atteggiamento nei confronti della donazione del sangue sia le motivazioni che possono spiegare la scelta del donare o meno. Nel nostro caso è emerso come siano almeno quattro gli aspetti, o fattori, che possono essere presi in considerazione per spiegare l’atteggiamento nei confronti della donazione del sangue e l’eventuale intenzione ad agire di conseguenza: due di ordine più cognitivo, la convinzione dell’utilità della donazione e la credenza che il donare sia di per sé gratificante, due di ordine più emotivo, la paura generica che donare sia doloroso e il timore che non sia sicuro dal punto di vista sanitario. Giustificarsi di non essere donatori motivandolo con il fatto di non sapere dove andare effettivamente a donare e con la necessità di aver più informazioni a riguardo, può essere un modo per risolvere un problema di dissonanza cognitiva. Di fatto, se la motivazione a mettere in atto un comportamento è alta e il soggetto possiede le risorse cognitive necessarie, si fa presto ad acquisire le informazioni necessarie a chiarirsi magari dei dubbi circa domande del tipo “togliermi il sangue mi può danneggiare?” “Quali sono i vantaggi e gli svantaggi?”.
Non dobbiamo dimenticare che per quanto riguarda i donatori, la ricerca di Reggio Emilia aveva messo in evidenza che una forte componente di questi ragazzi e ragazze riferiva di aver iniziato a donare in seguito alle campagne di sensibilizzazione dell’Avis nelle scuole o perché socializzati alla donazione attraverso la famiglia.
Avis opera molto nella fidelizzazione dei propri soci, ad esempio attraverso le benemerenze, le feste sociali e i diplomi. Dalle ricerche che ha fatto, e stando a contatto quotidiano con gli studenti, quali pensa dovrebbero essere le strategie dell’associazione per raggiungere questo obiettivo?
A questa domanda, in pratica identica a quella che mi venne posta dalla presidente dell’Avis di Reggio Emilia, rispondo dicendo, come allora, che occorre avere informazioni attendibili sulla situazione, cioè dati di ricerca che ci consentano di trovare soluzioni adeguate. Io non saprei dire se nella economicamente “ricca” realtà reggiana le soluzioni da adottare debbano essere le stesse della “più povera”, sempre economicamente, realtà foggiana o trapanese. O quali siano attualmente le differenze rispetto alle fasce d’età, allo status sociale ed economico o al fatto di essere religioso o meno. Si tratta di capire bene come si strutturano gli atteggiamenti, il livello di ambivalenza che li connota quando si fa riferimento alla donazione non di un oggetto personale ma di una parte del proprio sé corporeo come il sangue, il livello di congruenza tra atteggiamenti, credenze, opinioni e i comportamenti messi in atto. Non saprei dirle se le azioni di fidelizzazione nei confronti dei soci siano efficaci e se in misura maggiore o minore rispetto al creare un’identità di gruppo, un “noi” caratterizzato di individui che hanno chiarezze cognitive circa il perché “noi siamo quelli che il sangue lo doniamo”. La nostra, a differenza di altre, è una società individualista e non collettivista. E questo fa la differenza quando si fa riferimento al fatto di dare, come altri che possiamo anche non necessariamente conoscere, un contributo individuale che consente di salvare vite umane. In genere, quando si vuole risolvere un problema (e quello delle strategie adeguate ed efficaci da individuare per aumentare le donazioni di sangue in qualche modo lo è) occorre utilizzare in modo attento anche le strategie del problem solving.
In questi ultimi anni, uno degli obiettivi di Avis è avvicinare le persone di origine straniera alla donazione del sangue. Di cosa dovrebbe tener conto l’associazione per raggiungere questo obiettivo?
A questo riguardo ci sono due importanti considerazioni da fare. Il primo concerne l’aspetto culturale. Gli stranieri immigrati in Italia hanno fedi, culture, tradizioni, abitudini diverse a seconda del gruppo nazionale o etnico di appartenenza. Inoltre, per quanto riguarda i giovani, occorre operare distinzioni fra giovani di prima e seconda generazione, fra chi studia e chi lavora e rispetto alle appartenenze di genere. È un ambito tutto da esplorare, che non mi risulta sia stato ancora studiato e di per sé molto affascinante. Lo dico da ricercatore che in questi anni ha costruito il RIMILab (Centro di Ricerca e Interventi su relazioni Interetniche, Multiculturalità e Immigrazione, www.rimilab.unimore.it, ndr) e penso davvero che si potrebbe e dovrebbe studiare l’atteggiamento degli stranieri rispetto alla donazione del sangue. D’altra parte non dobbiamo trascurare l’altro aspetto, relativo ai pregiudizi e agli stereotipi nei confronti degli stranieri immigrati. In Italia, il fenomeno migratorio è “esploso” in questi ultimi anni, i problemi di accettazione/integrazione sono ancora ben lungi dall’essere risolti e presentano livelli di problematicità evidenti a tutti. Chi ha bisogno di una trasfusione non penso si ponga il problema se nelle vene gli viene iniettato un “sangue autoctono o di un immigrato di colore”. Tuttavia, questo aspetto non va sottovalutato, perché se l’Avis dovesse avere un numero elevato di donatori stranieri, non penso che l’informazione, una volta divenuta di dominio pubblico, resterebbe senza reazioni negative e connotate in termini di discriminazione. Il fatto che si possano ipotizzare reazioni di questo tipo, assolutamente da censurare, ci deve però portare a riflettere su cosa occorre fare per prevenirle giocando d’anticipo. Il presente è già multiculturale e il futuro sarà inevitabilmente connotato ancora di più in termini interculturali. E una rappresentazione sociale del sangue donato privo di connotazioni pregiudiziali e interculturali sarebbe la conferma di un bel passo avanti nel percorso dell’integrazione fra popoli diversi.
Intervista a cura di Sibilla Tieghi
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