Lo scorso 30 gennaio, alla Casa dei Donatori di Sangue, si è svolto il seminario “La donazione di Sangue e di Emocomponenti: analisi e riflessioni sulla decrescita” al quale erano presenti i presidenti e i volontari di diverse sedi Avis, di Fidas e del Centro Regionale Sangue. Gli interventi della giornata sono stati numerosi: si è discusso sul problema della decrescita delle donazioni osservando il fenomeno dal punto di vista economico, comunicativo, filosofico.

di Giulia Agostini

Di questa giornata vogliamo proporre un estratto del discorso fatto dal primo relatore, il professor Salvatore Veca, filosofo e Presidente della Fondazione Campus di Lucca. Il testo di “Fare bene il bene” sarà preceduto da un’introduzione riassuntiva, al fine di agevolare la lettura. Il testo integrale può essere letto qui.

Facendo un esercizio mentale, il professore ci chiede di ipotizzare due mondi opposti che portano dentro di loro i caratteri estremizzati del mondo reale: da una parte avremo un mondo composto di forti legami (legature) che uniscono gli uomini in rapporti di fiducia durevoli nel tempo e prevedibili nella loro evoluzione, ma che lasciano poco spazio alla peculiarità dell’individuo e alla realizzazione degli intenti personali; dall’altra parte, un mondo in cui le vite personali degli uomini (opzioni) condizionano fortemente l’imprevedibilità delle relazioni e creano intermittenza tra le legature, rendendoli liberi da forti legami ma vittime di una solitudine involontaria.
La solitudine involontaria creata da uno sbilanciamento verso il secondo tipo di mondo, nasce nel momento in cui vengono meno i presupposti necessari per mantenere le legature stabili nel tempo: i vincoli di fiducia che uniscono le persone sono infatti indispensabili per il mutuo riconoscimento della propria identità.
L’altruismo si fonda su motivazioni che si rifanno ai valori di empatia e rispetto. Essi operano nei diversi livelli di vicinanza con l’altro e l’etica del dono di sé, che si sviluppa ad esempio nel dono di organi e tessuti, porta l’individuo a raggiungere con il suo gesto l’Altro che non gli è a fianco, ma che ha bisogno di aiuto. Le associazioni, autorevoli nei diversi campi del volontariato, fungono da coordinatrici dell’intento individuale per il fine collettivo e generano legami di fiducia fra gli uomini e permettere così che il “fare bene il bene” sia possibile.

persone bene

Opzioni e Legature

Quanto vi propongo ora è un esercizio intellettuale, un piccolo esperimento mentale tributario nei confronti della teoria sociale. Cominciamo chiedendoci quali debbano essere le caratteristiche salienti di un mondo di legature. Non è difficile stilare un breve elenco di caratteristiche: prevalenza dei caratteri ascrittivi

[NdR: i c.a. sono le caratteristiche non dipendenti dalla volontà e dalle azioni dell’individuo come, ad esempio, l’età, la famiglia d’origine, il gruppo etnico e così via] sui piani o prospetti di vita delle persone; stabilità nel tempo delle identità personali e collettive; riproduzione sociale degli stili di vita e delle etichette sociali altrettanto stabile nella durata; stabilità nel tempo della divisione sociale del lavoro, stabilità nel tempo delle credenze individuali e, quindi, dell’ordinamento di preferenze individuali, intrapersonali e interpersonali. Compagnie durevoli nel tempo.

Immaginiamo il caso del percorso completo di vita di individui rappresentativi di una qualche posizione socialmente rilevante in questo mondo: diciamo che, date le caratteristiche salienti della breve lista, noi quali osservatori possiamo in linea di massima prevedere le tappe e gli snodi del percorso. Concludiamo che un mondo possibile con legature pari a uno è un mondo in cui disponiamo di un cospicuo ammontare di certezza quanto alle aspettative. In una prospettiva sociologica, seguendo un vecchio suggerimento di Ralf Dahrendorf, possiamo anche dire che in un mondo di questo tipo prevale il ruolo delle legature nel definire e determinare i prospetti di vita delle persone. Concludiamo che vi è una relazione stabile fra il valore zero delle opzioni per le persone e il valore uno delle legature che vincolano e modellano i percorsi di vita delle persone.

La nostra conclusione ci porta molto vicino alla definizione canonica, nella teoria sociale, di una società o di un mondo sociale tradizionale. Si tratta, naturalmente, di un tipo puro, come ci insegna l’osservazione empirica. Ma, rimanendo al nostro livello di astrazione, le cose possono funzionare abbastanza bene con la definizione del tipo puro. Al massimo, questo ci serve per orientarci – quali osservatori – in tale mondo senza perderci. E si consideri che lo stesso, grosso modo, vale per i partecipanti, che noi osserviamo quali spettatori. Una sola clausola da ribadire, per completare il quadro: noi ci muoviamo, quali osservatori o partecipanti, in un mondo di certezza che ha valore uno. Vite certe.

Ora, prosegue l’esperimento mentale, consideriamo un mondo possibile alternativo, in cui il valore delle opzioni equivale a uno. E, naturalmente, esaminiamo le caratteristiche salienti del secondo mondo in questione.
Com’è facile vedere, avremo in modo simmetricamente opposto un prevalere di caratteri elettivi per i prospetti di vita, una gamma di mutamenti e metamorfosi delle identità personali e collettive, innovazioni e cambiamenti più o meno discontinui nella divisione sociale del lavoro e nell’assegnazione di etichette, instabilità e intoppi nella riproduzione sociale, trasformazione delle credenze individuali e mutamenti negli ordinamenti di preferenza. Il percorso di vita di individui rappresentativi non potrà essere previsto senza ricorrere a sequenze biografiche di scelte e opzioni.

Il capitale di certezza quanto alle aspettative si svaluta e si altera il confine fra certo e incerto, a favore dell’incertezza per osservatori e partecipanti. Compagnie mutevoli o compagnie intermittenti per il sé. Vite incerte. E l’ombra del futuro si contrae sul presente. “il futuro non è più quello di una volta!” è la scritta sui muri che è comparsa un po’ di tempo fa e che, a suo modo, ci dice qualcosa a proposito della “dittatura del presente”. Adottando la nostra terminologia sociologica, cui ricorrerò di nuovo più avanti, potremo confermare che in questo mondo del secondo tipo prevalgono o hanno valore uno le opzioni, mentre le legature assumono valore zero. Questa conclusione ci porta molto vicino alla definizione canonica di società o mondo sociale moderno o, in ogni caso, investito da processi di modernizzazione, più o meno avanzati o post.

Ora, nel mondo del primo tipo sono le legature a generare e fissare stabilmente nella durata cerchie di riconoscimento per le persone. Nel mondo del secondo tipo, le persone sono libere rispetto a legature e, sotto un particolare profilo, sono in questo senso più sole o sole. Compagnie durevoli e compagnie intermittenti, come ho detto.

L’identità, del resto, implica la costituzione di compagnia per le persone. Ho a lungo lavorato alla definizione del male sociale per eccellenza nei termini della condanna delle persone alla sorte della solitudine involontaria. L’autonomia non è, e non può essere quella di Coriolano che è artefice del proprio destino, perché sappiamo che questo espone alla tragedia della solitudine, variamente interpretata e socialmente esemplificata. Né possiamo accettare che il deficit solipsistico [NdR: il solipsismo è una posizione filosofica che nega la realtà e il valore del mondo esterno, attribuendo esistenza e importanza al solo soggetto individuale e pensante] dell’autonomia ipertrofica [NdR: sproporzionata, riferita all’individuo] possa essere compensato con il tribalismo o il comunitarismo che intrappola le persone nelle etichette e nei ruoli sociali. Dobbiamo piuttosto riconoscere che l’autonomia delle persone è un costrutto e non un dato, è l’esito di una varietà di processi di interazione, di relazione e di incontro in cui le cerchie del riconoscimento guadagnano un orizzonte di senso e generano il capitale della fiducia per le persone. E che le chances di vita delle persone dipendono, alla fin fine, da un equilibrio instabile, ma prezioso fra opzioni e legature.

Veniamo ora all’ambito istituzionale e sociale. Passiamo dalla psyché alla polis, come si usa dire con il Platone della Repubblica. Che implicazioni ha l’esito dell’esercizio sul sé e sulle mutevoli compagnie sui nostri modi di pensare e valutare la politica, le istituzioni e le pratiche sociali? Ora, il paesaggio sociale delle mutevoli e intermittenti compagnie del sé è caratterizzato dall’indebolirsi del legame o delle legature e, quindi, dalla domanda di compagnia che riduca l’incertezza. Mentre la società, dalle nostre parti, si segmenta in distinte e differenti aree di eguaglianza e di confronto interpersonale e di mutuo riconoscimento che assomigliano a ghetti castali in presenza di un aumento crescente delle ineguaglianze e di vistose forme di dentro/fuori, di esclusione e inclusione, la domanda di compagnia si indirizza verso agenzie capaci di generare fiducia, di identificare e, quindi, di ridurre l’incertezza.
Come ho mostrato nel saggio “Non c’è alternativa”. Falso!, nelle circostanze della crisi in cui siamo intrappolati, il punto è che la politica, l’impiego della risorsa di autorità è oggi più debole nei confronti di altri poteri sociali nel rispondere alla domanda di compagnia. Lo è, naturalmente, in modo diverso, nella sua mutata geografia dei livelli di governo. In ogni caso, chiunque abbia in mente che la politica debba rispondere al mutamento sociale in rapporto alle aspettative e alle domande che frazioni di popolazione rivolgono nei loro bisogni di orientamento, di accompagnamento, di fiducia, deve prendere sul serio al tempo stesso i limiti della politica. Perché così può forse riscoprirne la portata. Non dimentichiamo che, sui limiti della politica, si addensa in una società democratica una varietà di forme associative, esito della libera arte di associarsi di Alexis de Tocqueville.

solitudine bene

Solitudini

Veniamo ora al secondo punto: quello che cerca di mettere a fuoco alcuni tratti del paesaggio sociale, in cui si danno casi significativi di alterazione o cambiamento dei parametri di orientamento per le persone. Lo faccio sulla base di una congettura su cui, come ho accennato, ho lavorato a lungo negli ultimi anni.
In un passo singolarmente eloquente, che compare nel secondo libro del suo celebre Trattato sulla natura umana, David Hume scrive: “Una solitudine totale è forse il peggior castigo che ci si possa infliggere. Qualsiasi piacere languisce se non è gustato in compagnia, e qualsiasi dolore diventa più crudele e intollerabile”. Ho sempre considerato questo passo di Hume come una specie di luminosa guida intellettuale, quando ci interroghiamo sulla natura del male sociale per eccellenza. Quando cerchiamo di mettere a fuoco il catalogo della sofferenza socialmente evitabile. La condanna delle persone alla sorte della solitudine involontaria è il semplice promemoria del male sociale. O, più precisamente, della natura propriamente sociale del male che persone, in circostanze situate e storiche, contingenti, possono infliggere ad altre persone. Vorrei chiarire ora perché le cose si possono vedere così, e che cosa il passo di Hume ci suggerisca a proposito dei nostri modi di convivere.

Cominciamo dicendo che il castigo della solitudine totale erode e azzera le basi elementari della socialità umana. Nel senso che taglia alle radici le cerchie di riconoscimento entro le quali le persone trovano una loro identità, quale che sia. Per ora, ci basti questa considerazione: perché qualcuno disponga di una qualche identità, dobbiamo presupporre che qualcun altro gliela riconosca e gliela attribuisca. Il sé, come si dice in gergo filosofico, presuppone un qualche noi, e sui variabili confini del noi torneremo a più riprese in queste pagine. D’altra parte, la teoria sociale ci suggerisce che le radici sociali del sé dipendono da una varietà di cerchie di riconoscimento di quel sé. Ed è intuitivo, del resto, che tutto ciò abbia a che fare con i capricci del tempo e della stabilità nella durata. Così, possiamo concludere, quando tali cerchie di riconoscimento collassano o, più semplicemente, perdono stabilità nel tempo e divengono incerte, ecco che si annuncia la possibilità della condanna delle persone alla sorte della solitudine involontaria.

E’ come se le persone venissero sconnesse rispetto alla rete delle cerchie di riconoscimento, di cui dispongono a un tempo dato. Cerchie di riconoscimento che possono essere le più diverse fra loro, ma che svolgono tutte, ciascuna a suo modo, il ruolo prezioso di mantenere stabile nel tempo l’identità di qualcuno, il suo nome rilevante nel tempo. Perché le persone, come i bambini di Ian McEwan, possono perdersi nel tempo. Sconnesse rispetto alle loro cerchie di riconoscimento, le persone possono divenire non solo straniere rispetto a un sistema di socialità dato, ma possono divenire straniere a se stesse. E questa è la catastrofe dell’identità del sé, ed esemplifica il male sociale supremo. Per questo, ha ragione Hume quando afferma che una solitudine totale è forse il peggior castigo per tipi come noi.

Naturalmente, è facile riconoscere che sono molti i volti della condanna delle persone alla solitudine involontaria. Si consideri una vasta gamma eterogenea di ordinarie storie di solitudine. Vengono subito in mente faccende abituali di solitudine metropolitana, storie di bambini soli o di vecchi soli, faccende di esclusione dal lavoro, questioni di grandi e piccole cerimonie di scomunica, di riconoscimento negato, cronache di umiliazione di persone a opera di altre persone, cronache di micro-cerimonie di degradazione, storie di disoccupazione, condanne alla damnatio memoriae. Bene: ci renderemo presto conto del fatto che, nella loro evidente eterogeneità, i molti volti della condanna alla solitudine hanno almeno un tratto in comune. E il tratto è quello della rottura del legame, del vincolo che lega le persone in una varietà di cerchie di mutuo riconoscimento. E che, in certo senso, è una delle basi sociali del rispetto di sé, per dirla con John Rawls, l’autore di Una teoria della giustizia. E’ in questo senso elementare che le persone possono provare, come disvalore, l’esperienza dell’esilio da una qualche compagnia umana. Anzi, da qualsiasi compagnia umana, nei casi più severi. (L’esperienza dell’esilio dalla cittadinanza diurna con cui Susan Sontag identificava la condizione del paziente o della persona bisognosa di cura fa slittare le nostre considerazioni dal livello degli agenti morali a quello dei pazienti morali, per impiegare una distinzione di cui mi sono avvalso nelle mie ricerche in filosofia morale e politica, a partire dalla seconda Meditazione di Dell’incertezza.)

Chiediamoci ora quali siano le circostanze in cui è più probabile che si generino stati di natura e si addensino micro-condanne alla sorte della solitudine involontaria. Non sarà difficile rispondere indicando tutte quelle circostanze, in cui mutamenti più o meno radicali e più o meno rapidi alterano e deformano o trasformano le mappe di socialità, le cerchie di riconoscimento date, in cui le persone dispongono di una identità stabile o, potremmo dire, di una compagnia stabile, quale che sia. Processi di innovazione tecnologica, grandi migrazioni, guerre, rivoluzioni nei modi del produrre, trasformazioni dei modi del comunicare, cambiamenti economici, crisi economiche strutturali e cicliche, trasformazioni religiose, etiche e culturali: ecco una gamma di circostanze in cui, in vari modi, le identità e i sistemi di riconoscimento stabili, in una parola, le compagnie date, sono investite dall’onda dell’incertezza, erose dalle fondamenta, esposte al rischio della perdita e della dissipazione.

Quando Marx ed Engels, alla metà dell’Ottocento, inventarono la vivida immagine della società liquida quali osservatori e partecipanti del mutamento sociale indotto dal capitalismo in stato nascente, essi avevano identificato i tratti distintivi di un processo che avrebbe caratterizzato in modo persistente le rotture e le trasformazioni della modernità. Sino alla solitudine del cittadino ai tempi della globalizzazione, della società dell’incertezza e della “paura liquida” del sociologo Zygmunt Bauman.

abbraccio

Fare bene il bene

Veniamo ora al nostro terzo punto. Cominciamo dicendo che le ragioni e le motivazioni dell’altruismo possono radicarsi tanto nello spazio delle emozioni o dei sentimenti morali quanto in quello della ragionevolezza o della razionalità delle persone. Nel primo caso, parliamo di empatia. Nel secondo, di rispetto.

L’empatia coinvolge il sé e la cerchia prossima delle persone in cui è possibile identificarsi. E cucire la propria funzione di utilità con quella degli altri biografici, nel senso che il loro star bene o star male influisce sullo star bene o star male del sé. Un’etica del rispetto allarga la cerchia, cui il sé ha ragioni e motivazioni per rispondere nel modo giusto allo star bene o star male di persone.

L’etica del rispetto non vale per persone biografiche ma per vale per chiunque, indipendentemente dai diversi e contingenti tipi di prossimità. Può accadere che le motivazioni del sentimento morale si sviluppino in un altruismo delle ragioni della solidarietà o della responsabilità verso gli altri generalizzati. Verso gli stranieri morali, come ho sostenuto più volte. Le ragioni della solidarietà militano contro la condanna delle persone alla sorte della solitudine involontaria, di cui abbiamo discusso a proposito del secondo punto. Le ragioni della solidarietà sono le risorse essenziali dell’offerta di buona compagnia umana.

L’etica del dono di sé, nel caso perspicuo della donazione di sangue, chiama in causa propriamente l’assunzione di una responsabilità nei confronti di chiunque possa trovarsi nella condizione del bisogno o del deficit dei suoi funzionamenti di base.

E ciò vale universalisticamente. Vale per chiunque. Ora, teniamo conto i) del fatto elementare che ragioni e motivazioni dell’altruismo non galleggiano nel vuoto pneumatico, ma sono radicate nella cultura e nel paesaggio sociale in cui una cultura vive durevolmente. Essa svolge il ruolo della conoscenza implicita e tacita, quella che detta i comportamenti e modella le scelte individuali di dono. Ma teniamo anche conto ii) del fatto che i singoli atti di dono richiedono l’associarsi delle persone e la persistenza nel tempo di un’organizzazione. Nello spazio aldilà delle transazioni di mercato, l’istituzione, l’organizzazione e l’associazione svolgono il ruolo indispensabile perché il coordinamento degli atti individuali di dono consenta di pervenire a un esito collettivo efficiente ed efficace.
Il coordinamento funziona come l’autorità nelle arene non di mercato della società. In esse, come ci ha mostrato Kenneth Arrow, l’autorità funge come una stabilizzatrice e una generatrice di convergenza delle aspettative e delle scelte individuali per il fine collettivo.

L’autorità, quale che sia, è una generatrice di fiducia, che il nostro David Hume chiamava il cemento della società. Per superare il gap fra individuale e collettivo, fra atti di dono individuali ed esito socialmente utile, l’autorità epistemica e normativa è giustificata dall’asimmetria informativa ed è tanto più efficace quanto più si avvale del’ascolto delle persone e risponde loro comunicando in modo adeguato e responsabile. Ciò consente di perseguire il fine sociale degli atti di dono individuali. Nel nostro caso, consente di fare bene il bene.

Ora, come ragioni e motivazioni personali dell’altruismo possono corroborarsi o indebolirsi al variare dei tratti del paesaggio sociale, allo stesso modo organizzazioni e associazioni non sono immunizzate per sempre nella loro efficacia di coordinamento, rispetto al mutamento e alle sue dimensioni plurali. Se ripensate all’esercizio intellettuale proposto all’inizio e mettete a fuoco le dimensioni dell’incertezza che contraddistinguono sia i progetti di vita individuali sia gli esiti della libera arte di associarsi, vi rendete conto del fatto che si possono dare circostanze in cui fare bene il bene non è un dato, ma diventa un problema. Si tratta di quelle circostanze in cui si altera il rapporto fra opzioni e legature, le compagnie durevoli divengono progressivamente compagnie intermittenti, le persone avvertono di essere più sole, l’ombra del futuro si contrae sul presente, si fa largo la dittatura del presente, le scelte individuali sono sempre più avverse al rischio, la percezione che si rafforza è che in ogni caso si abbia qualcosa da perdere, le ragioni dell’altruismo sono intaccate, la risposta del sé agli altri diviene più debole, l’azione associativa e organizzativa perde parte della sua presa per l’evitabile inerzia rispetto al mutamento.

Perché la lealtà persistente e durevole ai fini dell’etica del dono, nel caso perspicuo della donazione di sangue, non è e non deve essere incoerente con l’analisi e la valutazione razionale dei suoi mezzi e delle sue pratiche in un mondo di incessante trasformazione e deformazione. Sembra che ci sia un po’ di lavoro da fare, in proposito. Ma spero di aver suggerito che noi sappiamo che ne vale proprio la pena.